Lettera di Lisa Saoncella

Cara Fondazione Fasan,

voglio raccontarvi la mia storia, sebbene dolorosa essa sia.

 

Qualche anno fa, desideravo piu di qualsiasi altra cosa al mondo un gattino, un gattino tutto mio. Cosi, un bel giorno, i miei genitori decisero di lasciarmene prendere uno. Andai da una signora che ne aveva molti e li regalava alle persone che come me amano gli animali. Mi diede in braccio un fagottino rosso, era piccolo e grasso, con la pancia tonda, e morbidissimo. Aveva due piccole orecchiette e due occhi teneri che sembravano laghetti neri e profondi. Era tutto rosso e caldo, era la cosa piu bella che avessi mai visto. Mi leccò la faccia, tutta la faccia; il resto fu un sogno.

 

Ci misero insieme ed eravamo troppo piccoli e troppo felici tutti e due per fare caso a ciò che avveniva. Non ricordo niente di quello che dissero a mia madre, né di quello che lei disse a me. Continuavo a pensare: «Questo è il momento piu bello di tutta la mia vita». Matysse stava in braccio a me e nelle mie braccia era quasi senza peso, morbido, fiducioso e caldo. Ecco forse un altra cosa che ricordo bene è la sua fiducia. Non aveva, e non ebbe mai in seguito, nessun elemento, nessuno per fidarsi di me, ma si abbandonò ciecamente. I cani, i gatti e soprattutto i loro cuccioli, hanno questa cosa che rende particolare il nostro rapporto con loro. Si fidano di noi, hanno questa meravigliosa fiducia che noi continuiamo a tradire. Ogni volta, quando siamo bruschi o ingiusti con il nostro cane, dovremo ricordarci che non può capire i nostri cambiamenti d'umore, che ha riposto in noi tutta la sua fiducia, e se solo potessimo immaginare quanto ciò è importante per lui, non lo tradiremo tanto spesso e ingiuatamente. La giustizia è per il cane o il gatto nella mano del padrone come per noi è nella mano di Dio, sono per lui l'infinito, per lui risolviamo ogni cosa. Il cane capisce se siamo giusti e coerenti, ha bisogno della nostra coerenza per il suo stesso equilibrio. La qualità della sua vita dipende esclusivamente da noi, ed è questo che dobbiamo pensare quando prendiamo un cucciolo. Seduta in macchina di fianco a mia madre con lui in braccio andammo a casa. Lo portai in camera mia e lasciai che si ambientasse. Lui, curiosissimo, annusava ogni cosa e ad ogni nuova scoperta correva da me a cercare protezione. Io mettevo la faccia alla sua altezza e gli mormoravo paroline rassicuranti, allora tornava tutto vibrante e rimbaldanzito verso nuove avventure. Era visibilmente fuori di sè dalla gloria: correva, saltava, miagolava per incitarmi al gioco. Giocò per un bel pezzo, fece mille giochi e alla fine si addormentò dopo diverse pozzettine di pipì, tra le mie braccia, sfinito dalle emozioni. Restammo così: io, immobile per non svegliarlo, lui che dormiva profondamente, coi piccoli scatti dei sogni che hanno i cuccioli. Passarono due bellissimi anni e Matysse divenne sano e forte, proprio un bel micione. Mi accorsi con il passare del tempo, che dopo aver mangiato, Matysse faceva degli strani miagolii forti, mi sentivo morire a vederlo cosi. Cercavo di prenderlo in braccio per coccolarlo, ma mi ringhiava contro. Ero da sola in casa quel giorno i miei genitori erano al lavoro. Con le lacrime agli occhi, chiamai il mio veterinario e mi disse di portarglielo il più presto possibile. Appena mia mamma tornò a casa, andammo immediatamente dal veterinario. Ci disse che il nostro micio era ammalato di una nefrite, ovvero, una malattia che non permette agli animali di fare pipì. Cominciò il calvario. Il veterinario ci disse che bisognava sperare e stare a guardare e che non vi erano cure per questo tipo di malattia. L'unica soluzione sarebbe stata quella di operarlo, ma che sotto il suo punto di vista non sarebbe servita a nulla, perchè il micio avrebbe potuto morire per lo stress. Già il giorno dopo il mio Matysse aveva perso la sua gaiezza di sempre. Nel giro di pochi giorni cominciò come a sparire sotto i miei occhi poco alla volta. Ma per me, che passavo 24 ore su 24 con lui, Matysse non era un pacco. Era un vero gatto. Probabilmente il gatto più eroico e coraggioso che avessi mai visto. Era attaccato a me e alla vita, e voleva vivere. Continuava a cercare di darmi dimostrazioni del suo affetto, come poteva, in ogni momento, in ogni modo possibile. Sopportava tutto, ogni cosa che gli capitava, ogni cura, ogni eccesso della sua malattia con autentico eroismo. La sua fiducia in me era tale che non una volta protestò per le cure, che pure erano dolorose; accettava tutto pazientemente, e non trascurava mai, alla fine di ogni cura, di leccarmi la mano. Era una vera tortura vedere quell'esserino che non aveva fatto male a nessuno e cercava solo di vivere, lottare cosi disperatamente contro la sua malattia, e vederlo sempre più soccombere, perdere ogni vitalità e ogni forza e farsi sempre più magro. Adesso, tutti i pomeriggi dovevo prendere il mio fagottino di ossa e portarlo nello studio del veterinario e fargli fare la flebo: ormai non assimilava più niente per bocca, il suo stomaco non tollerava piu nemmeno l'acqua, e ogni pomeriggio me lo riportavo via col suo gonfiore tipo una palla causato dalla flebo, che risaltava impietosamente sul corpicino pelle e ossa. In capo a una settimana Matysse era lo spettro di se stesso, faceva pena a guardarlo. Se ancora oggi, dopo tanto tempo, e dopo tutte le cose brutte che ho visto capitare agli animali, scrivo, ricordo e sento ancora così dolorosamente tutto questo è perchè la morte che ha patito il mio cucciolo è stata tanto ingiustificata quanto terribile. Nessuno ha fatto realmente niente per curarlo. Nessuno, a parte me che ho vissuto tutta intera quell'agonia, sa quanto questo sia stata crudele e quanto tutto questo poteva essere evitato. Inoltre l'odore che cominciava a formarsi era inequivocabilmente quello della morte. Non si capiva bene come quel mucchietto di ossa potesse avere ancora la forza di fare le fusa quando lo accarezzavo, ma lo faceva. La vita adesso era solo dentro ai suoi occhi. Sollevarlo per portarlo a fare la flebo era sempre piu penoso: anche se mi lasciava fare, si capiva che non ne poteva più; il più piccolo movimento era per lui faticoso. Un giorno il veterinario ci disse che non sarebbe servito più a nulla portarlo ancora in clinica. Tutta questa tortura non serviva a niente, ormai. Matysse era allo stremo delle sue forze, respirava sempre più a fatica e chiedeva solo di essere lasciato in pace. Gli rimasi vicina, fino alla fine. Accarezzandolo e dicendogli paroline rassicuranti per rendergli meno pesante quel momento. Quando lui se ne andò, andò via con lui una parte di me. Lui continuerà a vivere dentro il mio cuore e dentro ai miei ricordi. Avolte mi sembra ancora di vederlo giocare con i miei piedi sotto la tavola o mi sembra di vederlo ancora giocare con ogni cosa che si muove. Sono convinta che quello sia il suo spirito che ogni tanto viene a trovarmi e a ricordarmi che ora sta bene.